ricevo e pubblico un articolo di Anna Castiglioni
E’ una frase tratta da uno degli ultimissimi articoli sui fatti di Tunisi, in questo caso pubblicato da La Repubblica. Non che la Repubblica faccia peggio di altri organi di informazione.
Dalla televisione ai quotidiani sembra che per i media italiani la falsa e fuorviante definizione di “rivolta del pane” sia la più gettonata. Non so se per risparmiare sui tempi televisivi, accomunando così due notizie e due paesi nettamente distinti, se per disinformazione causata da ignoranza o se per una disinformazione più studiata, che associare la parola dittatura al governo di Ben Ali potrebbe essere cosa non gradita. Ma se rimane il dubbio che mentano sapendo o meno di mentire, è invece una certezza che parlare di rivolta del pane significhi, giustappunto, mentire.
Innanzitutto l’ultimo rialzo del prezzo del pane in Tunisia risale al luglio scorso; non si sono registrate proteste di sorta.
In secondo luogo parlarne in questi termini equivale a dire che, con qualche ritocco all’economia del paese, il governo attuale avrebbe tutte le carte in regola per continuare a reggere il paese. Equivale a mettere la mani avanti per sostenere da una rovinosa caduta un presidente così caro all’Europa.
In migliaia però non sono scesi in strada per reclamare riforme all’economia del paese. O almeno non solo. Scendere in strada in Tunisia significa rischiare la proprio incolumità, la propria vita. Cinquanta morti ammazzati dovrebbero averci chiarito il concetto.
In migliaia hanno deciso di ritrovare il coraggio per chiedere la fine di una dittatura: lotta di liberazione è il nome esatto, se si volesse dare un senso alle parole e se si volessero rispettare le lotte di liberazione e non solo festeggiarne gli anniversari.
In migliaia combattono, perché è questo che fanno, contro una dittatura liberticida nel senso proprio della parola perché uccide ogni diritto civile e oltraggia i diritti umani. Combattono contro un sistema di polizia e delazione che per ventitré anni ha soffocato le aspirazioni di un popolo con la paura di ritorsioni, soprusi e violenze; una paura così tangibile da sfuggire solo ai turisti beati e beoti che non distinguono i paesi dalle cartoline. Combattono contro un sistema di arresti arbitrari, processi sommari, condanne politiche e torture. Combattono contro le vessazioni quotidiane inferte da una polizia che ha l’arroganza tipica di chi sa di avere il potere vero; le stesse vessazioni cui si è voluto sottrarre Mohamed Bouazizi il 17 dicembre dandosi fuoco. Non si è voluto sottrarre a un rincaro del pane ma a un sistema che frustra il popolo e lo umilia.
La dittatura di Ben Ali violenta e mortifica. Alcuni casi di tortura hanno avuto come sfondo il Ministero degli Interni, Av.Bourguiba, pieno centro città; da lì è partito l’ultimo messaggio di Slim Amamou, blogger arrestato il 6 gennaio. Violare i diritti umani in un palazzo governativo nel centro capitale: la dittatura di Ben Ali mortifica, certa com’è di non correre rischi e che la paura abbia ormai totalmente impregnato la vita di ogni tunisino.
E’ su questa certezza che la dittatura di Ben Ali vacilla.
“Da oggi in poi non abbiamo più paura” era uno degli slogan scanditi con voce sicura durante le prime manifestazioni a Sidi Bouzid.
“Non abbiamo paura, non abbiamo paura, temiamo solo Dio” è il grido che si sentiva poche ore fa finalmente nella capitale. Ed è bello sentire persone costrette per anni al silenzio, persone che meritano un paese diverso, parlare con fiducia, fiducia!, di una speranza e di un cambiamento.
“Forse domani qui ci sarà la guerra. Ma se vogliamo cambiare bisogna combattere.”
Hanno sconfitto la paura. Che se ne fanno adesso di un regime basato sulla paura?
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