“L'America uscirà a pezzi dall'Iraq”, così dice il politico iracheno, con un sorriso stampato sul volto. Ricordo di aver sentito questa espressione, o qualcosa di simile, molte volte nei mesi scorsi in numerose capitali arabe.
Anche a me piacerebbe che l'America uscisse malridotta dall'Iraq. Ma non è destino che questa avventura folle finisca necessariamente così. Chi conosce l'Iraq e la regione non è rimasto sorpreso dal fallimento americano. Sarebbe stato da arroganti ed ingenui credere che l'apparato militare americano potesse essere in grado di piantare la democrazia sulle macerie del regime di Saddam Hussein; così come credere che la pianta seminata con la forza potesse germogliare nel suo campo e modificare l'ambiente del Medio Oriente, considerato il responsabile della nascita di attentatori suicidi e militanti che invitano al conflitto mondiale e all'annientamento dell'Altro.
E' un diritto del politico arabo dire che l'America uscirà dall'Iraq crivellata. E' suo diritto gioirne perché la politica americana, soprattutto sulla questione delle protratte ingiustizie inflitte al popolo palestinese, ha generato una grande rabbia. Ma è forse un suo diritto considerare questa frase come un cuscino sul quale dormire sonni sereni?
Ogni volta che sento questa frase pensieri e visioni mi assalgono. Gli Stati Uniti uscirono malridotti dalla guerra di Corea. Hanno assorbito le perdite, fasciato le ferite e dopo un decennio si sono imbarcati nella guerra del Vietnam. Sono usciti dal Vietnam e dopo meno di un ventennio hanno festeggiato la scomparsa dell'Unione Sovietica, la quale aveva avuto un ruolo importante nella sconfitta in Vietnam. Oggi, a distanza di decenni, la Corea del Nord sembra malridotta dall'opera di un dittatore che esercita il suo potere con arsenali di razzi e fame, un artista del ricatto atomico e della violazione del diritto internazionale che dorme al sicuro su di un cuscino nucleare. Allo stesso tempo il Vietnam che mise in ginocchio l'America si prodiga in ingenti sforzi per attirare turisti ed investitori statunitensi.
La Francia uscì bastonata dall'Algeria. Dovette uscirne umiliata e piena di vergogna. Gettò uno sguardo nuovo sulle sue istituzioni. Ha metabolizzato la sconfitta e guardato al futuro. Ha intrapreso la strada della stabilità e la ricerca della prosperità. Chi può censire il numero di giovani algerini che sognano di emigrare nel Paese che ha crivellato i propri genitori? La storia delle carrette del mare non ha bisogno di spiegazioni. Le istituzioni si recuperano dalla sconfitta e ne superano le conseguenze. L'assenza di istituzioni vanifica le vittorie e apre la strada all'autoritarismo, al fallimento economico e ad una serie di guerre civili.
Ho sentito questa frase a Baghdad ed ho pensato ad un Iraq a pezzi. L'ho sentita a Sana'a ed ho pensato ad uno Yemen a pezzi. L'ho sentita a Beirut ed ho pensato ad un Libano a pezzi. L'ho sentita anche in altre capitali di Paesi arabi lacerati.
Siamo un Paese a pezzi. Malato. Che morirà di morte naturale o assassinato. La costituzione è assente, e quando c'è viene disprezzata. Nessuna istituzione vigila, sorveglia o si ritiene responsabile. Nessuna istituzione garantisce diritti o dignità. Le nostre università sono fabbriche che tengono i disoccupati al riparo dal lavoro, che sfornano generazioni che odiano il mondo, incapaci di impegnarvisi e di accettare le regole della differenza e della concorrenza. Le nostre scuole sono fabbriche che imbrigliano le potenzialità e l'immaginazione. I nostri parlamenti sono teatri comici. Le istituzioni non esistono o sono di cartone. L'idea di Stato è assente.
E' una tragedia. Festeggiamo l'America che se ne va via crivellata e dimentichiamo di vivere in un Paese ridotto a brandelli. Un Paese che affonda nel pantano dell'ingiustizia e dell'oscurità, in un mare di povertà, paura, indecisione e puritanesimo. Un Paese che trascura l'avvenire dei suoi cittadini e delle generazioni future e che si rifiuta di riconoscere di essere stato lacerato dalla Storia.
Articolo originale apparso su Al-Hayat
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